Guido Vitiello

Lasciate in pace Bartleby. Contro l’uso politico dei classici

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Ricordava Milan Kundera di quando dovette assistere, nella Praga appena liberata dall’occupazione nazista, a una messinscena dell’Antigone di Sofocle adattata alla solennità e all’euforia dell’occasione. Creonte vi appariva come un impettito caporaletto fascista, un fantoccio autoritario, Antigone come una paladina della libertà, partigiana o suffragetta. In luogo della tragedia, che è scontro indecidibile di due ragioni e di due leggi, un galvanizzante e didascalico teatro dei pupi. Arruolare i classici in battaglia, che villanìa, che pena. Ora è la volta del povero Bartleby, taciturno scrivano, rivendicato come primo occupante di Wall Street, tirato giù dal letto e trascinato in piazza di contraggenio, gli occhi ancora gonfi di sonno, e qui costretto a ripetere la sua rinuncia sibillina come il più fesso degli slogan, a sentire la propria voce – che Melville volle ferma ma soave – raccolta e amplificata dallo schiamazzo responsoriale dei microfoni umani. Che villanìa, che pena. Eppure i classici, specie i più appartati ed elusivi, non si prestano di buon grado a queste mansioni servili. Tutt’al più, se proprio li si interpella, offrono un albero maestro a cui legarsi per non cedere all’incanto delle sirene più esagitate.

Allan Bloom, ne La chiusura della mente americana, rievocava con fierezza il corso di civiltà greca che tenne sul finire degli anni Sessanta, mentre fuori dall’aula impazzava la contestazione: “Durante tutto l’anno avevamo letto la Repubblica di Platone. Non l’avevamo ancora finita quando l’università piombò nel caos. Quasi tutti i corsi cessarono, mentre studenti e professori si dedicavano alla seria attività di fare la rivoluzione, trascinandosi per i campus e passando da una folle assemblea all’altra. Io facevo parte di un gruppo di professori che annunciò che non avrebbe tenuto lezioni finché le armi non fossero state portate via dal campus e non fosse stato ristabilito un ordine legale. Ma questi studenti erano profondamente presi dalla storia dell’ambizioso Glaucone che stava fondando una città con l’aiuto di Socrate. Quindi continuammo a incontrarci in modo informale. Erano veramente più interessati al testo che alla rivoluzione, il che di per sé diceva quale genere di fascino alternativo l’università poteva opporre al canto delle sirene della scena contemporanea. (…) Dalla loro aula guardavano davvero dall’alto in basso la frenetica attività esterna, pensando di essere privilegiati, nessuno era tentato di raggiungere la folla”. Non che i classici non possano suggerire lotte o perfino rivolte, beninteso: ma li si lasci nell’ombra, nella nicchia dell’imbeccatore, si usi loro la cortesia di non portarli sulle barricate.

Nell’inverno del 2010, quando era in discussione la riforma universitaria, nelle piazze d’Italia comparvero i “Book Bloc”. Ragazzi che opponevano agli agenti i titoli dei classici impressi su scudi di polistirolo colorati, per protestare contro i tagli all’istruzione e alla cultura (senza neppure chiedersi come fu possibile a una cultura non sovvenzionata creare, nei secoli, tanti e tali capolavori). Chi brandiva il Satyricon, chi il Decameron. Chi il Principe, chi Il piccolo principe. Moby Dick (non c’è pace per Melville) accanto al Don Chisciotte. I Demoni di Dostoevskij – horresco referens – accanto al Che fare? di Lenin, la loro più truce e letterale incarnazione. C’era anche, con buona pace di Allan Bloom, la Repubblica di Platone. E c’era, in quei giorni, il collettivo letterario dei Wu Ming – anch’essi sul polistirolo con il loro Q – a spiegare che “Sì, la cultura è rivoluzionaria. Ma ‘cultura’ non vuol dire erudizione o nozionismo. ‘Cultura’, sempre per citare don Milani, è saper leggere il contratto dei metalmeccanici”. Che villanìa, che pena.

Ma i classici, specie i più appartati ed elusivi, sanno bene come difendersi, non chiedono avvocati. Per essi vale quel che Maurice Maeterlinck scriveva, a tutt’altro proposito, nella Morale des mystiques: “Crediamo d’avere scoperto una fossa piena di tesori meravigliosi, ma, quando risaliamo alla luce, ci accorgiamo di avere con noi solo pietre false e frammenti di vetro. Nella tenebra, intanto, il tesoro continua a brillare, inalterato”. La sola via per ottenere accesso ai grandi libri è andarli a cercare nei loro antri subacquei: bussate, e vi sarà aperto. Chi s’illude di spenderli sul mercato della rivolta, si trova tra le mani monete false (e il tesoro continua a brillare, inalterato). Al manifestante che li innalza come vessilli sulle barricate i classici rispondono, con voce soave ma ferma: “Preferirei di no”.

Articolo uscito sul Foglio il 5 maggio 2012 con il titolo Come illudersi di spendere i classici sul mercato della rivolta

Written by Guido

Maggio 10, 2012 a 12:57 PM

3 Risposte

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  1. Soltanto grazie, per l’intervento e per l’illuminante metafora maeterlinckiana, che davvero spiega in un giro di frase tutto quello che c’è da spiegare sul tormentato rapporto fra cultura e politica (e su molte altre cose).

    Pietro Bembo

    Maggio 10, 2012 at 5:55 PM

  2. Non possiamo che condividere l’aristocratico sdegno, anche se (per motivi pubblicitari) dobbiamo necessariamente evidenziare che tra i classici c’era anche il nostro: http://29.media.tumblr.com/tumblr_lfxgpwC58Z1qalz3io1_400.jpg.

    eliaspallanzani

    Maggio 11, 2012 at 9:54 am

  3. […] E il significato, poi? I romanzi non hanno alcun significato trasportabile nella vita quotidiana, perché a volerlo fare ci si rende conto che questo significato, fatto più di musica che di concetti, è una sensazione basata su un’incantesimo di parole e atmosfere. Non lo dico io, ma gente seria; e comunque è un concetto abbastanza intuitivo, come quello di persona felice. La verità di un romanzo esiste solo dentro al romanzo: a tirarli fuori dal pozzo, i gioielli diventano brutta bigiotteria. […]


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