Guido Vitiello

“Cameriere, c’è un refuso nel mio piatto!”

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Ci sono letture che ti fanno sobbalzare sulla sedia, qualunque sia la tua disposizione d’animo del giorno. Oggi pomeriggio, aprendo a caso La montagna incantata di Thomas Mann, mi sono imbattuto per l’ennesima volta in una pagina che non riesco a togliermi dalla testa da anni: quella in cui Hans Castorp, in sogno, assiste allo smembramento rituale di un bambino, nella parte più oscura e inaccessibile di un tempio greco:

«Due femmine grigie, mezze nude,dai capelli arrufffati, coi seni pendenti da streghe e i capezzoli lunghi un dito, erano intente  , fra recipienti di fiamma, ad una crudele bisogna. Esse straziavano sopra una bacinelle il corpo di un bambino, lo squrciavano con le mani, in un silenzo selvaggio (Hans Castorp vide tenui fili biondi miesti a sangue) e ne inghiotttivano pezzi,così che le ossa scricchiolavano nella loro bocca dalle cui labbra orrende goccolava il sangue. Un gelido orrore teneva legato Hans Castop. Egli avrebbe voluto fuggire, ma gli sembrava di essere inchiodeato al suolo”.

Terribile, senza dubbio. Ma il punto è: che cosa, qui, è così terribile? L’immagine del neonato sbranato in un arcaico rito cannibalico? La descrizione delle due repellenti megere? Se hai dato una di queste due risposte, tutto bene, sei una persona normale e puoi anche smettere di leggere questo post. Se invece a provocarti un “gelido orrore” è stata la mole spaventosa di refusi (una dozzina) che ho disseminato nel testo, devi preoccuparti: sei un correttore di bozze, e lo sei nell’anima, qualunque sia il lavoro con cui ti guadagni da vivere.

Il vero correttore di bozze è quello che soffre fisicamente per i refusi: la sua è una malattia psicosomatica. Può leggere centinaia di pagine su genocidi, stupri etnici, catastrofi naturali, assassini seriali, streghe che divorano neonati, il tutto senza batter ciglio. Ma se vede un doppio spazio, un apice nel verso sbagliato, un errore di ortografia, una virgola troppo staccata dalla parola che la precede – ecco che lo percorre quel brivido profondo di disagio, quel prurito, quella smania di far giustizia, di drizzare i torti, di ristabilire l’ordine messo a soqquadro. Quando si tratta di refusi, il più mite correttore di bozze, con tanto di bandierina della pace esposta sul davanzale, si trasforma in un interventista umanitario, perfino in un guerrafondaio: guai a lasciare degli errori di battitura a piede libero in un libro sul Rwanda.

Qualcuno potrebbe vedere in questa sua curiosa forma mentis il segno di una schizofrenia morale, tratto che peraltro non manca mai nell’identikit psicologico di ogni buon genocida. Ma sarebbe, come vedremo, un’accusa ingenerosa.

Il vero correttore di bozze – qualunque sia il suo orario di lavoro – è sempre in servizio, come un poliziotto in villeggiatura che, dismessa l’uniforme, senta nondimeno l’impulso irrefrenabile di acciuffare il borseggiatore. Non arretra davanti a nulla, il correttore: se sta leggendo un libro già bell’e stampato, non accetta che i refusi l’abbiano fatta franca, perlomeno non nella copia in suo possesso: e così, diligentemente, li corregge a margine con la sua matitina, affinché, nell’impossibilità di far giustizia (ma c’è sempre la seconda edizione, che è come il processo d’appello), sia almeno ristabilita la verità.

E non crediate che il suo zelo sia confinato al mondo del libro. Ovunque ci siano lettere e parole in fila, lì si annida potenzialmente il male da emendare. Già che appartengo in tutto e per tutto a questa triste famiglia umana, vi dirò che nulla mi offende più di un’insegna al neon in cui è immortalato, per l’eternità, un refuso. E non parlo dei refusi involontari che nascono da una lampadina fulminata, per i quali si può incolpare l’incuria, o l’usura del tempo. Parlo dei refusi veri e propri, deliberati, commissionati a un fabbricante di insegne luminose che a sua volta non si è accorto dell’errore: né lui né tutte le persone che, in un modo o nell’altro, sono passate per la sua bottega. Ricordo ancora – e son passati vent’anni – quel locale che ostentava fieramente, vorrei dire crassamente, l’insegna lampeggiante Snak Bar (che sarebbe un refuso pure per un rettilario). Ebbi allora, lo confesso, l’impulso a passare alla clandestinità e fondare delle Brigate Ortografiche che spegnessero, armate di fionde e sassi, quella ed altre efferatezze. Un po’ come il Marcovaldo di Italo Calvino, che prende a sassate l’insegna del Cognac (anzi, solo lo GNAC) che gli impedisce di vedere il firmamento.

Un vero correttore di bozze non dismette l’uniforme interiore nemmeno quando ha a che fare con il menu di un ristorante: può non aver mangiato per giorni, ma non c’è appetito che possa annebbiargli la vista al punto da non vedere che quei tortelllini hanno una l di troppo, non c’è piatto così divino che non possa disgustarlo se gli è servito con un errore di battitura. “Cameriere! C’è un refuso nel mio piatto!”, ho sentito gridare qualcuno dei nostri. E dunque, con sua gran pena, il correttore è costretto a non prendere mai un dessert. La Crème Caramel perde il suo gusto se diventa Cream o perfino Crem. E può mettere una croce sui Profiteroles, che se va bene diventano Profitterol o Proffiterols. Una pizzeria vicino casa mia, pur di non sbagliare, riporta sul menu un interlocutorio Profiter: e ciascuno, poi, scelga à la carte il suo suffisso di guarnizione.

Un discorso a parte meriterebbero i menu bilingui, che sono il peggiore spot (o il migliore, dipende da quanto si è dadaisti) di Google Translate. Vette sublimi si raggiungono nei menu dei ristoranti cinesi, che sembrano trascrizioni fonetiche di lingue ignote o estinte. Ma nulla potrà mai eguagliare la trattoria dove, a beneficio dei turisti anglofoni, la spigola alla piastra diventava non già, com’era da attendersi, griddled sea bass bensì il grandioso It forms ears to the slab, cioè “forma orecchie al lastrone”; da cui si può dedurre (almeno secondo questo dizionario) che spigola era da intendersi non come pesce ma come terza persona del verbo spigolare. Purtroppo il ristorante in questione non aveva le orecchiette: avrei potuto fare un controllo incrociato.

Ma il correttore di bozze, sia detto a difesa della categoria, non è un cinico che vive in un castello di carte mentre fuori il mondo va in fiamme. Al contrario, è il principe degli utopisti. George Steiner ne fece l’eroe di un romanzo breve sulla fine del comunismo, che s’intitola appunto Il correttore. Il Gufo, o il Professore – così è soprannominato il protagonista del libro – non è un ombroso sacerdote del testo o un archivista accigliato e funereo; è anzi un ex partigiano espulso dal Pci con l’accusa di trotzkismo, e questa purezza ideologica fa tutt’uno con la sua quotidiana fatica:

Notte dopo notte dopo notte, Carlo, lavoro finché mi duole il cervello. Per arrivare all’esattezza perfetta. Per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo. L’esattezza. La santità dell’esattezza. Il rispetto di se stesso. Gran Dio, Carlo, devi capire quello che cerco di dire. L’Utopia significa semplicemente l’esattezza! Il comunismo significa togliere gli errata dalla storia. Dall’uomo. Correggere bozze.

Inutile dire che, più che refusi, il comunismo ha tolto dalla storia un bel po’ di malcapitati, e lo storico Robert Conquest inaugurò una sua opera sul terrore staliniano invitando il lettore a calcolare che “nel corso delle azioni qui raccontate persero la vita circa venti persone per, non ogni parola, ma ogni lettera di questo libro”. Il libro è di 411 pagine, ed è quasi senza refusi. Questo aiuta a spiegare perché, disgustato dalla storia, il buon Gufo di Steiner riversasse la sua passione utopistica nelle pagine stampate, dove nulla o quasi si frappone alla creazione di un mondo perfetto.

Ma il discorso sta prendendo una piega troppo seria, o troppo cupa, ed è quasi ora di cena. Vi saluto e vado a prepararmi il solito forma orecchie al lastrone – stavolta lo faccio alla livornese. Non ho voglia di andare al ristorante: non sia mai dovessi trovare un refuso nel piatto…

Written by Guido

novembre 29, 2010 a 8:32 PM

10 Risposte

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  1. Ma pensa te! Mi sono già abbondantemente cosparso più volte il capo di cenere ma nel paese del Cattolicesimo-esibito-per-prassi devo confessare pubblicamente la mia infamia: alla seconda riga della citazione che riporti mi sono detto che _dovevo_ rimediare all’incuria della copia.
    Poi, per non fare un commento puramente autoaccusatorio, vorrei ricordare come adesso si deve (dovrebbe) scrivere “La Montagna Magica”, un po’ come il Grande Timoniere della Rivoluzione che una volta, quand’ero giovane, si chiamava Tze Tung e poi è diventato Zedong.

    juhan

    novembre 30, 2010 at 8:51 am

    • Hai ragione, ne parlavo proprio domenica con il mio papà: per decenni “Der Zauberberg” e la weberiana “Entzauberung der Welt” sono stati tradotti come “Montagna incantata” e “disincanto del mondo”, senza far cenno alla magia. E allora perché non il “Flauto incantato” di Mozart, invece del “Flauto magico”? Ma che dire, sono conservatore in queste cose. E poi ci sono sociologi che scrivono “de-magizzazione”, e andrebbero fucilati. “Dismago” è forse troppo poetico, ma chissà.

      unpopperuno

      novembre 30, 2010 at 9:00 am

  2. Ma questo post è bellissimo! Mi ci sono ritrovata parola per parola… ora lo stampo e lo faccio leggere a un po’ di amici che ancora si domandano perché voglio fare proprio questo lavoro! Grazie!

    Lela

    dicembre 1, 2010 at 8:47 PM

  3. Hai fatto il mio ritratto. Grazie

    pensandoti

    dicembre 4, 2010 at 4:25 PM

  4. i refusi sono come capelli nel piatto. fanno schifo anche se sono tuoi.

    mastra

    dicembre 4, 2010 at 5:19 PM

  5. Ancor prima di cominciare a leggere ho notato la spaziatura sbagliata e le tre “t”…
    A colpo d’occhio.
    Inizio a farmi davvero paura. O.O

    ClarinetteM

    dicembre 4, 2010 at 8:44 PM

    • ma ti è venuto l’impulso di scrivere un commento inkatsato (mi si perdoni il francesismo) come a me?

      juhan

      dicembre 5, 2010 at 8:16 am

  6. Anche io ho una lettura somatizzante, e soffro specialmente degli svarioni dei traduttori. Peggio delle montagne magiche: il più doloroso, per me, si deve a quel cialtrone di Roberto Sanesi. Traducendo It’s high carillon From the popcorn bells!, da Hart Crane, si inventa le «campane di popcorn».

    bleistein

    dicembre 6, 2010 at 8:17 PM

    • Povero Sanesi, tutti possono sbagliare… Ma sei Bleistein quello col sigaro? Allora io sono Burbank con il Baedeker.

      unpopperuno

      dicembre 6, 2010 at 8:25 PM

      • Lo siamo: l’ultima volta ci siamo visti a Venezia. Festeggiamo dunque l’incontro con una castroneria eliotiana di Sanesi.

        Più poetico del poeta, egli non crede che in una poesia qualcuno possa sollevare delle banali tapparelle ( hands that are raising dingy shades ). Molto meglio mani che sollevano ombre annerite in un migliaio di stanze ammobiliate . Anzi: mejo de Trakl!

        bleistein

        dicembre 7, 2010 at 2:09 PM


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