Guido Vitiello

Ciò che e vivo e ciò che è morto in Raymond Chandler

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Gli estensori di agiografie, o anche solo i biografi riverenti, passano volentieri al crivello i racconti d’infanzia dei loro santi ed eroi, per rintracciarvi le avvisaglie remote di una sicura vocazione: il piccolo chimico già intrugliava nella cucina materna, il trasvolatore oceanico non pareva interessarsi che agli aeroplanini di carta, il dittatore in erba già tiranneggiava nonne e zie.

Ebbene, il biografo di Raymond Chandler che volesse fare altrettanto non avrebbe facile gioco: nulla lasciava intravedere in lui il futuro padre del detective Philip Marlowe, nulla faceva presagire il grande riformatore del racconto poliziesco, il primo giallista accolto nel pantheon di quella che i tedeschi chiamano Literaten-Literatur, la «letteratura dei letterati».

Chandler non poteva vantare, a differenza del suo ammiratissimo Dashiell Hammett, un passato da investigatore privato, e neppure era stato cronista di nera come Georges Simenon; si era dedicato piuttosto agli affari, fino a diventare vicepresidente di una compagnia petrolifera californiana. A sospingerlo verso la carriera letteraria non fu una musa ispiratrice, fu la depressione: quella che mise in ginocchio l’economia del tempo, certo, ma anche quella personale, che lo portò all’alcolismo e a tenaci propositi di suicidio. Perso il lavoro nei primi anni Trenta, s’immerse nella letteratura pulp, fece i suoi rapidi calcoli e concluse che sì, diventare giallista poteva essere una facile via per far soldi. Aveva 44 anni.

Altro ostacolo sulla strada del nostro biografo: Chandler passò buona parte della giovinezza in Gran Bretagna, dove dalla nativa Chicago lo aveva portato la madre irlandese appena dopo il divorzio, ma detestava il giallo inglese «a enigma», quello di Agatha Christie, che all’epoca era il giallo tout court. A dirla tutta, non teneva in gran conto il romanzo poliziesco in generale: ancora un paio d’anni prima di morire confessava a Helga Greene, in una lettera, che il suo merito era stato quello di «prendere un genere mediocre e cavarne fuori della letteratura».

Il disprezzo per una forma d’arte non è forse il miglior viatico per eccellervi. Eppure Chandler vi riuscì appieno, grazie soprattutto a un personaggio imbroccato: Philip Marlowe, detective privato in trench, cappello e occhiali da sole, accanito fumatore di Camel, una bottiglia di whisky sempre nel cassetto della scrivania. Un uomo «triste, solitario e finale», al punto che Osvaldo Soriano ne farà un personaggio del suo romanzo più noto, che a Chandler deve anche il titolo.

Marlowe debuttò nel 1939 con il Grande sonno: cinico e romantico a un tempo, donnaiolo brusco e ombroso, paladino dell’innocenza in una Los Angeles perduta e irredimibile come una nuova Sodoma, sarà l’eroe di avventure sempre più cupe, da La signora del lago a Il lungo addio, forse il capolavoro di Chandler, uscito nel 1953. L’anno dopo, morta l’adorata moglie-madre Cissy, più grande di lui di quasi vent’anni, lo scrittore piomberà nello sconforto, tenterà goffamente il suicidio, si dividerà tra alcol e droghe, finirà spesso in cliniche psichiatriche. Farà vivere il suo eroe ancora per due romanzi, l’ultimo dei quali incompiuto. Morirà a La Jolla, in California, il 26 marzo di cinquant’anni fa.

Chi volesse stabilire, oggi, «ciò che è vivo e ciò che è morto» in Raymond Chandler incapperebbe presto in un’evidenza: Chandler ha vinto, e su tutti i fronti. Lui, che non sempre fu tenero con i suoi seguaci e imitatori, può vantare oggi una discendenza da patriarca biblico. L’hard-boiled, il noir violento all’americana, che Chandler contribuì a fondare con Hammett e Carroll John Daly – ma che più degli altri affrancò dal ghetto del pulp e traghettò verso la letteratura alta – celebra in questi anni il suo trionfo ubiquitario: quasi non c’è chi impugni la penna senza ricorrere, a grandi o piccole dosi, alla maniera chandleriana. Dal neo-polar francese al nuovo giallo italiano fino a certo giornalismo letterario d’inchiesta, il creatore di Marlowe è ovunque. Solo, le ragioni della sua fortuna non sono quelle che si sono a lungo credute.

Ricordava Oreste Del Buono i tempi in cui era naturale apprezzare «la verità del romanzo poliziesco all’americana, d’azione, contrapposta alla falsità del romanzo poliziesco all’inglese, di deduzione». Da un lato la grande città, le strade, la corruzione, i gangster; dall’altro un piccolo mondo lezioso fatto di colonnelli in ritiro e vecchie baronesse che uccidono in salotto all’ora del tè per mezzo di misteriosi veleni orientali. «Ma un giorno mi si sono aperti gli occhi e ho capito che c’è più manierismo in Raymond Chandler che in Agatha Christie», concludeva Del Buono. Ed è proprio così: sotto le mentite spoglie del realismo, Chandler è il padre di un nuovo manierismo, tetro e sussiegoso tanto quanto quello del giallo classico era frizzante e divertito. Un manierismo del sordido e del marcio, fatto di detective alcolisti ed erotomani che hanno per ufficio una stamberga e che sempre s’imbattono in loschi gangster, plutocrati corrotti e bionde procaci con l’alito che sa di Martini.

Nel saggio-manifesto che scrisse nel 1944 per “The Atlantic Monthly”, La semplice arte del delitto, Chandler lodava Hammett per aver strappato il delitto al giardino di rose del vicario, dove lo tenevano ostaggio Agatha Christie e Dorothy Sayers, e averlo restituito ai vicoli, in «un mondo in cui i gangster possono dominare le nazioni e poco manca che governino le città». Ma «sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, né un vigliacco». È il detective, e dev’essere un uomo d’onore «senza pensarci e senza mai parlarne troppo». Inutile osservare che la battaglia donchisciottesca di questo schivo eroe-giustiziere contro un mondo marcio non è la realtà, non più di quanto lo fossero i salotti e le biblioteche di Agatha Christie: è una nuova mitologia, o meglio ancora è la vecchia mitologia del western – e prima ancora dei cavalieri erranti – trapiantata nella metropoli.

Perché questo, a conti fatti, è il merito di Raymond Chandler: non ha portato il giallo dalla finzione alla realtà, lo ha portato dal teatro al cinema. Laddove la detective story classica è statica, ieratica, fatta di ambienti chiusi e intrecci ordinati, il noir chandleriano è immagine in movimento, azione, suspense, scene madri, intrecci labirintici. Non per caso Chandler amò, riamato, il cinema, e sceneggiò con Billy Wilder quel capolavoro che è La fiamma del peccato. E non per caso il suo Philip Marlowe, se non fosse per una piccola eccedenza di statura, sembrava bell’e pronto per essere incarnato da Humphrey Bogart. Come puntualmente avvenne nel film di Howard Hawks, che portò Il grande sonno nel suo habitat naturale: il grande schermo.

Articolo uscito sul Riformista il 26 marzo 2009, cinquantenario della morte dello scrittore.

Written by Guido

aprile 27, 2009 a 4:34 PM

Pubblicato su Il Riformista

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